La cappella di San Giuseppe, già dell’Angelo Custode

La cappella, originariamente intitolata agli Angeli Custodi, fu edificata dopo il 1631 dal mercante Alfonso Lucentini da Cascia, grato per l’ottenimento della cittadinanza reatina.

Nell’arco di un quinquennio, l’opera muraria era pressoché compiuta.

Tra il 1636 e il 1638, Gregorio Grimani realizzò l’apparato plastico in stucco e Vincenzo Manenti provvide alla decorazione delle pareti e della cupola raffigurandovi a destra una Sacra conversazione con Sant’Agnese, Santa Lucia e San Martino di Tours, a sinistra il Cristo Risorto, nelle lunette rispettivamente la Fuga di Lot e la Visione di Giacobbe.

Sull’altare, fu collocata la bella tela di Andrea Sacchi raffigurante l’Angelo custode che protegge Tobiolo dalle insidie del demonio.

Gli eredi del Lucentini nel corso del XVIII secolo cedettero la cappella ai Nestori, questi a loro volta la consegnarono ai Severi.

Nel 1815, a causa di un dissesto finanziario, la cappella fu devoluta ai creditori: il Capitolo ne rientrò in possesso, cedendola in seguito al vescovo Gaetano Carletti che nel 1859 la consacrò al nome di San Giuseppe.

A questa nuova intitolazione seguì il riassetto della cappella, con la realizzazione della tela dedicata a San Giuseppe, opera del romano Pietro Gagliardi, e la ricollocazione dell’Angelo Custode di Andrea Sacchi sulla parete di sinistra, a coprire la pittura parietale del Risorto di Manenti, che Angelo Sacchetti Sassetti nel suo saggio postumo definiva «guasta dall’umidità».

Con grande emozione, l’affresco del Cristo risorto è ricomparso ancora sostanzialmente integro quando, nel 2003, la tela di Andrea Sacchi fu rimossa per essere esposta presso la sala delle udienze del palazzo papale in occasione della mostra dedicata ad Antonio Gherardi.

Al termine della mostra, si decise d’intesa con il vescovo Lucarelli di ricollocare la tela del Sacchi nella vicina cappella di Sant’Ignazio, dove esisteva una cornice in stucco di dimensioni affini, per provvedere in seguito al restauro integrale degli affreschi di Manenti.

L’accurato intervento di restauro condotto dalla giovane, apprezzata professionista romana Martina Comis ha consentito di conoscere più da vicino le tecniche e le strategie esecutive dell’artista sabino, mettendo in rilievo la sequenza delle giornate necessarie a

realizzare i dipinti sull’ampia superficie intonacata, non senza operare con rapidità e maestria interventi di ripensamento rispetto all’idea impostata sul cartone: tre giornate per ciascuno dei grandi dipinti delle pareti laterali, mentre le fresche immagini delle lunette furono realizzate nell’arco di una sola giornata.

Nel 1906, il vescovo Bonaventura Quintarelli provvide a traslare presso la cappella le reliquie di San Probo nel bell’altare in marmo realizzato dal reatino Primo Cavoli su progetto del professor Giuseppe Colarieti Tosti.